Un pizzico di storia
Fra il 1884 e il 1885 due diversi studiosi, l'americano William James (1842-1910) e il danese Carl Lange (1834-1900),
ipotizzarono in modo indipendente uno dall'altro una singolare teoria, detta "teoria periferica delle emozioni".
Secondo questi autori le emozioni, quali le sperimentiamo (paura, tristezza, rabbia ecc.),
dipendono dal fatto che - dato un certo stimolo - si attivano specifiche risposte fisiologiche del sistema nervoso autonomo
(nel caso della paura, per esempio, aumenta il battito cardiaco ecc.). Sempre secondo James e Lange, sono queste reazioni
somatiche a determinare la qualità delle emozioni: e così saremmo tristi perché piangiamo (il nostro corpo produce
risposte fisiologiche a uno stimolo che portano al pianto e noi avvertiamo questo come tristezza) e non il contrario
(piangiamo perché siamo tristi).
Nel 1927 il fisiologo americano Walter Cannon (1871-1945) e, nel 1929, il suo collega Philip Bard (1898-1977)
criticarono la teoria James-Lange, sviluppando la cosiddetta "teoria centrale delle emozioni", in cui viene invece
evidenziato che esiste un'attivazione fisiologica comune a molte emozioni; al di là del ruolo del sistema nervoso autonomo,
attivazione e regolazione delle emozioni dipenderebbero dal sistema nervoso centrale, con il contributo della corteccia
cerebrale (la sede di processi complessi quali pensiero, linguaggio, memoria ecc.). Insomma, per avere emozioni
occorre anche una elaborazione dello stimolo a livello corticale.
Partendo da un punto di vista diverso, psicologico e non fisiologico, verso la fine degli anni '50 psicologi cognitivisti
come Stanley Schachter (1922-1997) ribadirono comunque il ruolo della corteccia cerebrale nelle emozioni.
Il tipo di emozione che proviamo ha a molto che fare con il modo in cui valutiamo e interpretiamo ciò che ci sta accadendo:
paura, dolore, gioia, sorpresa, disgusto, tristezza dipendono anche dal significato che noi diamo agli stimoli, da come ci
rappresentiamo la situazione.
Quali implicazioni può avere tutto questo?
Essere a conoscenza di questi aspetti può essere molto utile nel caso in cui si provino emozioni molto intense
(per lo più spiacevoli) che non sembrano del tutto motivate dalle circostanze.
Le emozioni, in realtà, sono il sale della nostra vita psicofisica, ci danno indicazioni preziose su di noi e
ci aiutano a orientare il nostro comportamento. Ne proviamo innumerevoli ogni giorno e, di solito, più o meno, conviviamo con esse.
La vita di oggi, spesso frenetica, sovraccarica di stimoli e piena di incertezze, forse ce ne fa provare più di un tempo, o maggiormente diversificate,
causandoci a volte stress (ma il discorso non è affatto così semplice).
Ovviamente, se una persona è colpita da un lutto, da un grave trauma, ci aspettiamo che reagisca con forti emozioni.
Così come nel caso di una grande gioia, una nascita, un evento felice.
Ma vi sono casi in cui l'emozione sembra in un certo senso travalicare la contingenza e invadere buona parte della vita psichica
della persona.
Vi sono persone che, per motivi non del tutto indagabili (si presume costituzionali e/o dovuti alla loro storia specifica),
hanno livelli di attivazione psicofisica molto alti anche in situazioni che per altri sono solitamente neutre:
svolgere compiti banali, relazionarsi con gli altri in contesti semplici...
Oppure che reagiscono con maggior emotività a eventi che anche altri vivono generalmente con emozioni e affetti intensi:
per esempio, un cambiamento di lavoro, un trasloco, una separazione.
Se vi sembra di appartenere alla categoria che il senso comune dà alla parola "emotivo" e avvertite questa emotività come disturbante,
può essere utile, per il vostro benessere, percorrere - anche contemporaneamente - almeno due strade.
Agire direttamente sullo stato emotivo
L'emozione, come abbiamo detto sopra, comporta uno stato di attivazione fisiologica. Per esempio, nel caso della paura:
cuore che batte veloce, respiro affannoso, sudore, senso di nausea... Se ovviamente la circostanza non richiede una risposta immediata
(tipo attacco o fuga), può essere utile individuare delle tecniche che diminuiscano o comunque modifichino la risposta fisiologica.
Per esempio, respirare profondamente, o adottare pratiche specifiche di rilassamento. Oppure, al contrario, impegnarsi
in un'attività fisica, per esempio semplicemente camminare a passo un po' veloce.
Si può pensare a espedienti molto concreti (bagni, nuotate, massaggi, aromaterapia...) che aiutino il nostro corpo a
compensare un poco le sofferenze in cui è inevitabilmente coinvolto (mente e corpo sono un tutt'uno).
Si può distrarsi con un gioco, una conversazione, un'attività interattiva che allontani i pensieri negativi.
I modi sono molti, ognuno potrà trovare quello che più gli è congeniale.
In questi casi si va ad agire in primo luogo sui centri sottocorticali coinvolti nell'emozione. Il risultato può essere immediato,
ma difficilmente una semplice tecnica corporea può risolvere in modo più profondo l'inclinazione all'ipersensibilità degli emotivi.
La rielaborazione cognitiva (e affettiva)
Poniamo che, di fronte a una situazione genericamente nuova, un emotivo provi paura.
Facciamo un esempio molto semplice: una persona che deve recarsi per la prima volta da sola in aeroporto, per prendere
l'aereo (senza aver però paura di volare). Sarebbe importante che potesse indagare perché prova paura: quali sono gli aspetti
del contesto che la spaventano? Il luogo è troppo ampio? Non sa esattamente dove andare? C'è troppa gente? Teme di sbagliarsi?
Di imbarcarsi su un volo che non è il suo?
Ecco che potrebbe cercare di valutare diversamente la situazione: intanto, gli altri non stanno manifestando di provare paura,
quindi forse la situazione non richiede questa emozione. Poi: il luogo è ampio, ma ci sono molte indicazioni che, con calma,
si possono seguire. Ci sono molte persone? Meglio, si possono chiedere suggerimenti. È possibile sbagliarsi? Sicuramente, lo fanno in molti,
forse a costo di qualche figuraccia e... mal comune mezzo gaudio! Infine, sicuramente, con tutti i controlli che ci sono, nessuno farà salire
un passeggero sull'aereo sbagliato...
Ecco che, grazie a una riconfigurazione cognitiva della situazione, questa può non esser più letta come situazione paurosa e l'emozione
può diminuire.
(Certo, rimane da capire il problema generale del perché le situazioni nuove mettano questa persona in stato di allerta eccessivo,
ma l'esempio è volutamente circoscritto.)
Un esempio più complesso (qui i fattori in gioco però possono essere molti e dobbiamo necessariamente semplificare):
una persona si separa dal partner e prova inevitabilmente una grande tristezza. Ma se questa si manifesta in uno stato di attivazione emotiva
negativa costante, tale da interferire pesantemente con ogni aspetto della sua vita, si potrà chiedere: "Perché questa separazione
mi getta in questo stato? Perché mi sento tanto invaso dall'emozione da sentirmi sopraffatto?" E potrà cercare di ridare un significato a quell'esperienza
che non sia solo catastrofico. Per esempio: "Forse penso che tutta la mia vita dipenda solo da quella persona. È davvero così? Non ci sono altri aspetti della mia vita
che pure funzionano e su cui posso maggiormente puntare in questo momento di grave crisi: i miei figli, il mio lavoro, i miei amici,
i miei interessi? Forse, se la separazione c'è stata, la relazione non funzionava bene come immaginavo. Non l'ho capito? Posso provare
a vedere perché non ho capito. Ora, anche se con dolore, posso provare a interrogarmi su quali sono gli aspetti che non ho visto.
Posso riflettere su quale è stato il mio contributo alla non riuscita della relazione e quale il contributo dell'altro. Posso pensare che,
dopo questa esperienza, conoscerò meglio me stesso. Proverò a non ripetere gli stessi errori e cercherò magari di evitare persone che abbiano
le caratteristiche del partner da cui mi sono separato. Posso pensare che ci vorrà del tempo, forse anche tanto, ma che la mia vita sentimentale
non finisce qui: del resto molte altre persone si separano e molte trovano un nuovo partner dopo una relazione che si è conclusa". (È sempre utile il confronto con quello che succede agli altri:
ci fa capire che non siamo l'unica eccezione sulla faccia della Terra. Vedi anche L'amore può durare?)
O ancora: "Vi è qualcosa del mio lontano passato, che ha a magari che vedere con la relazione d'attaccamento ai miei genitori, che può
influire sul mio stato emotivo attuale? Sto rivivendo abbandoni precoci, reali o immaginari?"
Anche questa riflessione può contribuire a una conoscenza migliore di se stessi che si sa che sarà utile in futuro.
Questa (impegnativa, lo riconosciamo) rivalutazione/rielaborazione cognitiva della situazione può essere d'aiuto,
oltre che per una crescita personale, anche per ridimensionare le reazioni emotive in gioco
(stiamo semplificando, lo ribadiamo, perché sono implicati tanti fattori, quali le caratteristiche di personalità,
l'età, la durata della relazione, l'investimento fatto in termini di progetto di vita ecc.).
Ovviamente non si tratta solo di una
faccenda di tipo "intellettuale": alla rilettura cognitiva si accompagna una rielaborazione di affetti e sentimenti, e tutto ciò può aiutare a uscire da una
situazione in cui tristezza, paura, ansia sono gli affetti prevalenti e travolgenti.
Per questo a volte possono essere d'aiuto colloqui psicologici o una psicoterapia, che implicano però processi anche
diversi da quelli cognitivi e affettivi accennati qui (vedi Psicoterapia).
A ogni modo, cercare autonomamente di "scomporre" i vari aspetti di una situazione particolarmente emotigena e provare a riconsiderarli
da altri punti di vista, dandone letture diverse, può essere sempre d'aiuto e mitigare l'impatto di una travolgente emozione.
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